Funambolici incipit per storie di facilitazione

A fine 2022 sono felicemente finito in uno stupendo progetto collettivo, immaginato e realizzato da Maria Cristina Lavazza e Sara Seravalle. Un libro sulla facilitazione che fosse una raccolta di esperienze sul campo, dalle quali poter trarre insegnamenti utili per chi si affaccia a questa professione. L’idea era raccogliere storie reali, di quelle che si raccontano stando seduti uno accanto all’altra e che in qualche modo sono state importanti per chi le racconta: per avere imparato qualcosa, perché hanno influito sul suo modo di lavorare o di vedere quello che fa.

Oltre a permettermi conoscere un sacco di persone in gamba, è stata una bella opportunità per fermarmi e riflettere un po’. È stato difficile trovare storie particolarmente “catartiche”, quelle dove la testa fa BOOOOM e si passa al livello successivo, diventando Super Sayan della facilitazione. Non perché non ripensi e valuti quello che è successo durante o dopo un’esperienza di facilitazione, ma perché le riflessioni portano poi a micro aggiustamenti, correzioni apparentemente marginali, posture e prospettive personali che solo grazie alla stratificazione diventano poi quello che considero il mio stile.

Così, per aiutarmi a trovare una storia, e che fosse in linea con l’idea del libro, mi sono messo a buttare giù alcune situazioni più significative di altre. Forse sapevo già cosa avrei voluto raccontare, perché rileggendole ora non saprei dire dove volessi andare a parare 😅

Il libro adesso è uscito, quindi per festeggiare 🥳 ho pensato di pubblicare qui di seguito quello che NON ho condiviso per questo progetto. Incipit e appunti che avrei potuto trasformare in qualcosa di decente, ma che sono rimasti nel cassetto. Non perché ne vada orgoglioso, non sono storie di successi o rivelazioni particolari. È più un esercizio di condivisione, in un periodo in cui mi interrogo molto su come sia possibile confrontarsi in maniera onesta tra professionisti, anche sulle situazioni scomode, che ci mette a disagio raccontare.

❌ Qualcosa sul gioco

Ho passato diversi anni a progettare esperienze di apprendimento per bambini e ragazzi. Soprattutto usando la tecnologia, quindi linguaggi di programmazione visuali, robotica, ma anche videogames o semplici app per fare video. Quasi subito ho incontrato l’apprendimento creativo, cioè un modo per descrivere come impariamo. In questa prospettiva (ce ne sono decine di diverse e altrettanto valide) attraversiamo in maniera ciclica una serie di fasi: immaginiamo qualcosa, la costruiamo, ci giochiamo, condividiamo quello che abbiamo fatto e riflettiamo sull’esperienza, per poi ricominciare a immaginare qualcosa di nuovo e così via.

Spiegata così si capisce poco, quindi provate a immaginare dei bambini all’asilo che stanno giocando. Vedono dei cubi per le costruzioni e iniziano a fare un castello, provano a creare mura e torrioni, improvvisano una battaglia con dei pupazzi. Un altro bambino li vede e inizia a raccontare la storia della principessa da salvare dentro il castello, ad un certo punto la torre più alta cade e i bambini si mettono a ricostruirla, questa volta più alta e stabile di prima. Mitch Resnick la racconta così nel suo libro “Lifelong Kindergarten”.

Spesso, durante laboratori con bambini e ragazzi, mi sentivo dire “dovresti fare queste cosa anche con gli adulti”. D’altra parte, da fuori si vede il gioco, il divertimento. Non è visibile la frustrazione del non farcela, la fatica della collaborazione, le mille domande su come portare avanti un progetto, ecc. Così, dopo qualche anno, ho iniziato a farlo sul serio con gli adulti.

Ora mi trovo a prendere a prestito i giochi dei miei figli per portare in aula attività di tinkering come la reazione a catena o le scribbling machines. Una volta mi sono ritrovato un gruppo di 60 manager in giacca e cravatta a cui ho lasciato usare dinosauri e macchinine, palline e cartone, legno e colla a caldo. Stretti uno accanto all’altro dovevano costruire una serie di strutture e marchingegni, senza istruzioni particolari e potendo giocare liberamente con tutti i materiali a disposizione.

P.S. Non c’era una storia in particolare. Avrei voluto testimoniare il potere del gioco come strumento per concretizzare le idee e innescare conversazioni. Rileggendolo ora, sento che mi porterebbe a raccontare quanta insicurezza può esserci nella progettazione di esperienze per adulti: “come accoglieranno quello che ho progettato per loro?” “sarà adatto a queste persone?” “e se durasse di più o durasse di meno?” “e se nessuno parlasse?”. Ogni idea ci parla in modo diverso a seconda del momento in cui la teniamo per mano.

❌ Quella volta con tanti dirigenti della P.A.

Ampio salone nobile di un palazzo veneziano, grandi quadri alle pareti, lungo tappeto rosso a dividere due gruppi di sedie disposte a platea. Seduti in maniera sparsa, una quarantina tra dirigenti e referenti di diversi settori della pubblica amministrazione, pronti ad ascoltare il benvenuto rituale da parte della dirigente del settore promotore.

Avevamo progettato questa mattinata in due, con pochissimo preavviso e un sacco di aspettative e richieste da parte del committente. Non aveva esperienza di incontri facilitati, voleva sperimentare qualcosa di nuovo e approfittare di questa rara occasione densissima di dirigenti. OOOOOccheeiiiii……Quale occasione migliore, pensavo.

E poi la dirigente che ci introduce così:”bla bla bla presenterà il progetto nel dettaglio… poi con i ragazzi faremo un …. cosa faremo ragazzi? beh spiegatelo pure voi”

P.S. Anche questo è solo un incipit, voleva essere una storia per riflettere sull’importanza di chiarire il proprio ruolo rispetto al processo a cui si partecipa. Spesso non solo i partecipanti non sanno chi sia un facilitatore, ma lo stesso committente fa fatica a comprenderlo. Una buona domanda di partenza è sempre “di cosa hai bisogno? cosa posso fare per te? cosa desideri da questa esperienza?”. E da lì prendersi un po’ di tempo per conoscersi meglio.

❌ Quella volta di una co-progettazione tra sessanta persone

“Ma secondo voi quale potrebbe essere il numero giusto per una co-progettazione?”

“E se dovessero esserci più di 50 persone, si potrebbe fare lo stesso?”

“Ma riusciamo a farlo entro la fine del mese? Lo so che siamo un po’ stretti ma ci chiedono di ….”

P.S. Questo è l’incipit di una storia che avrebbe parlato di come da una attività di service design siamo passati ad un percorso formativo sul design thinking. Di quanti cappelli diversi si possono indossare, entrando dalla porta come consulenti ed uscendo come progettisti, iniziando l’evento come facilitatori e finendo con il cappello del formatore. Avere tanti cappelli nascosti sotto la giacca può aiutare in molte occasioni. In questo caso scegliere quello giusto dipendeva da tanti fattori: quanti partecipanti, quanto tempo a disposizione, ma soprattutto quanto il committente fosse consapevole di cosa sia la progettazione partecipativa.

❌ La facilitazione dell’organizzazione di cui fai parte

Quest’anno il tema di #FACILITA (a cui non sono riuscito ad andare, sob, sigh 😭) è stato “La sfida della neutralità”. Per me si traduce nelle situazioni in cui mi sono trovato a facilitare gruppi nei quali ero parte attiva e avevo un forte coinvolgimento emotivo. Mi viene da pensare a tutte quelle professioni per cui esiste una sorta di codice deontologico che invita a non avere a che fare con parenti e affini.

Poi ci sono tante pratiche di facilitazione (penso al metodo del consenso) dove una cosa non esclude l’altra, ma sono convinto che nei workshop in cui il facilitatore è molto coinvolto o competente sia molto più difficile “lasciar andare”. Richiede molta consapevolezza e onestà.

Anche in questo caso non c’era una vera e propria storia, eravamo più nel filone “cose che ho imparato vivendo situazioni difficili”.

❌ Costruire unagenda per poterla non seguire

Sono un grande fan delle agende dettagliate e ben organizzate. Quante volte mi è capitato di arrovellarmi sulla durata di un’attività, moltiplicando secondi e minuti per il numero di partecipanti, facendo una media della durata della condivisione. Per poi aggiungere minuti di qui o di là per riuscire a incastrare tutto quello che volevo nella mattinata.

Per me, crescere come facilitatore è stato metabolizzare che l’agenda è utile solamente quando sei consapevole che puoi farne a meno. Imparare a leggere i movimenti del gruppo per capire quando guidarlo o quando affiancarlo. Non vale sempre e dipende dagli obiettivi dell’incontro, ma lo considero un superpotere ✨.

❌ La mia fissa per le etichette con i nomi

Su questo non ho una storia in particolare. Forse finirei per raccontare di quella volta che avevo 8 anni e ad una festa di compleanno c’erano degli animatori che proponevano giochi e io pensavo fortissimamente: “odio gli animatori, perché non possiamo fare quello che vogliamo?”. Ovviamente poi sono finito anche io a fare l’animatore alle feste di compleanno. Ma ho imparato a non dare mai per scontato che un gruppo di persone in una stanza si divertirà per il semplice fatto di essere tutte nello stesso posto in un certo momento.

Così mi sono ritrovato a usare giochi per presentarsi e conoscersi, per rompere il ghiaccio e creare uno spazio sicuro. Condividere qualcosa di molto piccolo, come il nome, è già qualcosa. E meglio ancora se ce lo scriviamo da soli su un’etichetta 🖍️. Così scopriamo già entrando nella stanza che ci troveremo a fare cose in prima persona. E potremo farle chiamando le altre persone per nome.

✅ Partecipanti che non vogliono partecipare

Questa non è una di quelle storie che mi piace raccontare. Non c’è alcuna scena epica in cui salvo eroicamente la situazione, non sono particolarmente orgoglioso di come ho gestito le cose e alla fine non c’è nemmeno una morale che permetta di affrontare con successo situazioni simili in futuro. D’altra parte, nella facilitazione abbiamo a che fare con le persone, quindi credo che non esistano “situazioni simili”. Ci sforziamo di progettare incontri tra gruppi di persone seguendo alcuni pattern e la nostra esperienza, ma la possibilità di controllare quello che succederà riunendo diversi individui nella stessa stanza è pura illusione.

Ecco, questo qui sopra è l’incipit della mia storia che trovate nel libro “33 funamboliche storie di facilitazione – Lavorare con i gruppi e imparare da tutto quello che succede sul campo”.

Ho ricevuto oggi la mia copia e appena ho iniziato a leggere alcune storie, ho scoperto quanta affinità ci fosse con le persone che le hanno raccontate. Nonostante non le abbia mai incontrate, attraverso le loro parole mi sono ritrovato catapultato al loro fianco, sentendo le loro emozioni, i loro dubbi, la loro energia e creatività. Ogni storia che ho letto fin’ora (e non le ho ancora lette tutte 😅) mi ha portato di fronte a quegli stessi gruppi, a chiedermi come mi sarei comportato io.

Che vi occupiate di facilitazione da tanto tempo o che abbiate appena cominciato, sono sicuro troverete qualcosa di prezioso in questo libro.

Ecco i nomi delle bellissime persone che hanno qualcosa da regalarvi: Camilla Torna, Cristiano Siri, Daniele Bucci, Dario Solina, Davide Tarasconi, Delfino Corti, Elena Ceriotti, Elena Urizar, Fabrizio Lonzini, Federica Tabone, Flavia Rubino, Luca Rosati, Lucilla Borio, Mafe de Baggis, Marco Saponaro, Marianna Carbone, Maria Cristina Lavazza, Maria Vittoria Colucci, Marta Buffa, Marianella Sclavi, Michelangelo Pavia, Paola Santoro, Piergiorgio Lovato, Rino Panetti, Roberto Manzone, Sara Seravalle, Sarah Santeusanio, Valentina Catena e Viviana Neglia.

Lo potete acquistare dal sito di UXU Edizioni e da Amazon.

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