il pendolare

Il ragazzo non sa esattamente come si chiama. O forse non vuole saperlo. Ad ogni modo la cosa non è importante, almeno non lo è per lui.

Sta là. Fermo. Aspetta che aprano il sipario, che gli portino qualcosa da bere, che qualcuno gli dia il via. “Ai posti di partenza”. Continua a sentirlo dentro la testa anche se nessuno gliel’ha mai detto.

Aspetta.

Poi cambia posizione, si annoia, fa avanti indietro sul palco. Ma il sipario resta chiuso. Si sente il personaggio di una storia scritta da qualcun’altro. Non è nemmeno un attore. Si sta letteralmente rompendo i coglioni.

Ma non è che prende la macchina e va da qualche parte, oppure esce, fa qualcos’altro. NO. Lui sta lì e aspetta.

Intanto pensa a un sacco di cose: le immagini, il testo, il libro, i musei, il viaggio, le persone, gli ingranaggi. Tutte cose che non gli dicono niente. Affollano la testa e stanno lì. Una ressa di pensieri. Accalcati l’uno sull’altro. Non fa in tempo ad afferrare un concetto, importante, determinante, risolutore, che se ne para davanti un altro, incomprensibile, abbozzato, frammentario.

Domani è un altro giorno. “Vedremo che succede”. E intanto sta lì. Aspettando che qualcuno lo chiami. Gli risponda. Gli altri lo sapranno che è lì. Lo hanno visto tutti che è lì, non si è mosso.

Invece nessuno sa niente. Niente di niente. Nemmeno lui sa niente.

In definitiva non aspetta niente. Sta lì. Finge di aspettare, altrimenti, sul serio, non gli rimarrebbe altro da fare.

A quanto pare non è la speranza l’ultima a morire, è l’attesa.

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